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Ostuni
Marzo 28 2024

Da un altro luogo

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Nel giardino, giocavano al gioco delle biglie lungo le fughe delle decorazioni di pietra. Anche quando era inverno, vestendosi di abiti in panno e lana intessuti a mano, con le dita intirizzite, felici al pensiero che, dentro la casa, al tepore del focolare, la madre preparava biscotti al limone e il padre, bene attento a pulirsi il soprabito dalla polvere del mondo di fuori, rientrava per sedersi alla poltrona preferita, per leggere e riflettere. Raramente per la casa risuonavano le musiche di Händel o Bach. Quando accadeva, si potevano sentire le note per tutto il giardino, fra i rami illuminati dal sole d’inverno del limone del piccolo frutteto, lungo le fughe di pietra dove correvano le biglie, entro le mura, che chiudevano dal mondo di fuori. Quella musica era segno che, in quella casa, isolata da tutto, c’erano uomini.

Prima che potessero cominciare a mangiare, il padre lesse alcune frasi da un libro di Hermann Hesse, come al solito commuovendosi un poco. Quindi la madre versò il brodo, che sorbirono in silenzio. Dopo la cena, il padre tornò alla poltrona, fra i libri che consultava avidamente ogni sera, per accrescere la propria sapienza, mentre la madre e la figlia si dedicarono a cambiare le lenzuola e le federe. Da qualche giorno, invece, il ragazzo era arrivato alla parte del Libro dei giochi che spiegava come costruire un aquilone. Non capiva appieno a cosa servisse l’oggetto. Era affascinato dalla forma e dal nome dei materiali che servivano per costruirlo. Non ne aveva mai visto uno dal vivo. Con la carta da forno e lo spago sottratti dalla cucina della madre, di nascosto, aveva allestito un piccolo laboratorio sulla scrivania verde della stanza. Non era certo i genitori approvassero — ma, quel Libro dei giochi, non era appartenuto al padre? Non ne aveva lui costruiti a sua volta, in passato? Era difficile pensare che quell’uomo serio, sempre vestito di scuro e la grande barba bianca ormai d’anziano, si potesse impiegare in qualcosa del genere.

«Che fai?» chiese la sorella, affacciandosi, con la sua voce squillante.

«Niente» disse il ragazzo, cercando di nascondere frettolosamente il lavoro.

«Fa’ vedere.»

«Non è niente…»

«Dài» continuò, leziosamente, la bambina.

Il ragazzo s’arrese. Le mostrò l’aquilone, ormai quasi completato. Lei rise.

«Dovresti colorarlo di rosso.»

«Perché?»

«Così è più bello.»

«Non so a che serva.»

«Vola.»

«Non è possibile.»

«Vola nel cielo.»

«Come fai a saperlo?»

«Cos’altro potrebbe fare?»

Il ragazzo ci pensò su. Aprì il libro che spiegava come costruirlo. Lo lesse e rilesse.

«Penso tu abbia ragione. Ma servirebbe un giorno di vento.»

«Domani se c’è vento lo facciamo volare. Sei stato bravo» continuò la bambina, dandogli un bacio.

Al mattino, dopo la colazione, dopo che il padre era uscito per andare al lavoro, la madre istruiva i figli in italiano e scienze. Studiavano insieme, fianco a fianco, al tavolo della cucina. Sapevano che dovevano rimanere lì per almeno quattro o cinque ore, fino a stancarsi, per avere il permesso di giocare in giardino.

«Mi piacerebbe vedere un elefante» disse la bambina, mentre la madre le insegnava a compitare la parola.

«Non c’è niente di interessante in un elefante.»

«Perché lo studiamo, allora?»

«Devi sapere come vanno insieme le lettere, e come le parole, legandosi, formano le frasi» spiegò la donna.

«Perché?»

«Per imparare a pensare.»

«Lo faccio tutto il tempo. So già pensare.»

«No.»

«Tu hai mai visto un elefante?»

«Non importa.»

I figli guardarono il volto della madre. Ancora giovane, ma tanto serio, con occhi che sembravano continuamente persi in problemi più grandi dei loro.

Quando furono congedati dal lavoro scolastico, a quell’ora la madre andava sempre a riposarsi in stanza, uscirono per far volare l’aquilone. Un diversivo, rispetto ai soliti giochi. Non erano certi che i genitori avrebbero approvato. Nel dubbio, avevano scelto di non chiedere il permesso.

«Non vola» disse il ragazzo, che, per natura, si sfiduciava subito.

«Prendiamo la rincorsa.»

«Qui non abbiamo spazio. E non c’è neppure tanto vento.»

«Provo.»

La bimba cominciò a trascinare l’aquilone per terra dal fondo del giardino. Andò a sbattere comicamente, senza farsi davvero del male, su muro in fondo. Non ottenne alcun effetto.

«Qui dentro è impossibile usarlo.»

«Dovremmo uscire» disse la bimba, massaggiando il naso che era andato contro la parete.

«Non possiamo.»

«No…»

«No, davvero. Prima di uscire dobbiamo imparare a pensare.»

«Tu non pensi di saper pensare?»

«Ha detto mamma che, quando cominceremo a pensare, lo sapremo.»

«Io penso di pensare già.»

«Non è possibile. Sei più piccola di me.»

«Mi piacerebbe farlo volare» rispose lei, rigirandosi l’aquilone fra le mani.

«Non sarebbe male.»

L’oggetto finì in cima all’armadio del ragazzo per diversi mesi, fino a quando, in estate, la madre dovette ricoverarsi per un’appendicite. Non era consentito andare loro in ospedale, perché non potevano uscire oltre il giardino, in quanto, secondo il loro genitori, dovevano ancora cominciare a pensare. Però, in quelle belle giornate luminose, i fratelli non dimenticarono l’aquilone. Sia pure posto a impolverarsi in cima all’armadio, non era mai uscito dalla loro mente.

«Oggi tira un bel vento. Facciamolo volare» sentenziò la bambina, affacciandosi alla porta del fratello. Si stava esercitando nel migliorare la calligrafia, come aveva chiesto la madre, dall’ospedale.

«Non volerà. Non c’è spazio per la rincorsa.»

«Andiamo in strada.»

Lui ci pensò su.

«È sbagliato.»

«Chi lo ha detto?»

«I nostri genitori.»

«Come fai a sapere che hanno ragione?»

«Loro sono più grandi. Hanno già imparato a pensare.»

«Come fai a sapere che è vero?»

«Imparare a pensare è la cosa più importante al mondo. Mamma dice sempre che il problema degli adulti è che molti non hanno mai imparato a pensare.»

«Io esco per far volare l’aquilone. Tu fa’ come vuoi.»

Il ragazzo pensò che, se la sorella aveva deciso, era inutile opporsi. Doveva accompagnarla per evitare che le succedesse qualcosa.

La casa in cui erano isolati era inserita in un contesto cittadino. Uscirono dal cancelletto (non era mai stato chiuso) e cominciarono a correre lungo la strada. Il ragazzo si premurò che la sorella non fosse investita da un’auto o un ciclista. Infine arrivarono a un grande parco, dove riuscirono a far volare l’aquilone. La bambina era rossa in volto e felice.

Al ritorno, scoprirono il lavoro del padre. Era in un chioschetto a vendere giornali. Lo osservarono inosservati. Stava leggendo uno dei suoi libri. Ogni tanto, era distratto dalla lettura da uno dei clienti. Videro arrivare un uomo molto ben vestito, con giacca e cravatta e una bella borsa di cuoio. Prese cinque o sei quotidiani e un paio di riviste.

«Cosa legge?» chiese, incuriosito, al padre dei ragazzi.

«Immanuel Kant» mormorò il signore, senza incrociare lo sguardo.

L’uomo rise apertamente.

«Un edicolante che legge Kant. Pensi che io lo insegno da vent’anni in università, e non mi sembra ancora di comprenderlo. Ma sì, va bene, fa bene, legga pure. Tenga, onestuomo» concluse, e gli diede una manciata di monete, quindi girò i tacchi e andò via, coi suoi giornali sottobraccio.

I ragazzi, osservata la scena, tornarono a casa. La loro trasgressione non era stata apparentemente notata.

«Che ne pensi?» quando furono in salotto, di fronte alla libreria paterna.

«Mi è spiaciuto che papà si facesse trattare così da quel signore.»

«Vorrei sapere chi è Immanuel Kant.»

«Vediamo nell’enciclopedia».

Era loro proibito consultare la libreria paterna, perché i genitori volevano che imparassero le cose nell’ordine giusto, per capire il rapporto che stava fra di loro. Ma quel giorno era diverso dagli altri.

«Che ne pensi?» chiese il ragazzo, dopo che ebbe letto, ad alta voce, qualche riga della biografia del filosofo tedesco.

«Perché papà si fa trattare così?» chiese la bambina. «Sa tante cose.»

Il ragazzo provò a riflettere. Pensare significa essere potenti? Poter trattare chiunque da pari a pari?

«Penso d’aver capito cosa vogliono dirci, quando dicono che dobbiamo imparare a pensare» rispose.

«Che intendi?» chiese la bambina,

«Penso che papà voglia insegnarci che sta ancora imparando» concluse il ragazzo, scorrendo con gli occhi il resto della voce dell’enciclopedia.

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Domenico Santoro
Domenico Santorohttps://domenicosantoro.art.blog/
Nato nel 1986 a Ostuni, dove risiede, laureato in scienze politiche e filosofia, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su la Repubblica (ed. Bari), A4, Grado Zero, Risme, Il paradiso degli orchi, Spore, L’ircocervo, Quaerere, Bomarscé, Voce del Verbo. Nel 2021 ha pubblicato un romanzo (“Il posto delle cose”) con Placebook Publishing. Il suo sito personale è domenicosantoro.art.blog.
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