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Ottobre 19 2024

Atlantide

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Mio padre, dopo il lavoro, sedeva sul grande letto matrimoniale, coi pomelli in ottone. Toglieva la camicia e le scarpe. Mi guardava. Sorrideva.

«Me la porti una coca?»

«Col ghiaccio e limone?»

«Sì.»

Restava così seduto, in canottiera e bretelle, finché tornavo con la bevanda. Poi, credo, si stendeva per qualche minuto, finché i rumori del giorno (era autista di bus) non fluivano via dalla mente. Dopo, ogni sera, prima di cena, apriva la cassapanca, prendeva le carte e i libri, li ordinava sul tavolo della stanza da letto (la casa era piccola. Non avevamo uno studio) e ricominciava a cercare Atlantide.

Il mito aveva sempre affascinato papà. C’era anche una stampa, in cucina, che rappresentava il continente perduto. Somigliava all’Australia. Si è detto che Atlantide, se in effetti era esistita, fosse un’isola del Mediterraneo, come Sardegna o Creta. Non so se qualcuno abbia mai pensato all’Australia. Forse avrei dovuto suggerirglielo.

Dopo la cena, quando teneva compagnia a mia madre di fronte alla tv, si potevano vedere i suoi piedi battere impazientemente. “Atlantide” lo richiamava. Ci abbandonava, per immergersi nelle sue carte.

Ero un bambino piuttosto spensierato, come forse dovrebbero essere tutti a quell’età. Dopo i compiti, andavo in cortile a giocare a palla con gli altri. La domenica, quando non lavorava, papà mi portava allo stadio. Andavamo a piedi, era a due passi da casa. Quando era freddo, papà, con le sue grandi mani, mi allacciava ben bene la sciarpetta blu e gialla, e mi conduceva per mano fino all’ingresso.

Allo stadio ne sentivi di ogni, dalle persone sugli spalti. Tanti facevano commenti, per fare gli spiritosi, per mettersi in mostra. La palla che andava avanti e indietro e, ogni tanto, finiva in fondo alla rete. Papà non sembrava emozionarsi tanto per la partita, ma quando la squadra segnava, o andava bene, sorrideva.

Dopo, mi portava al bar, dove beveva un caffè, un amaro, e commentava la partita con qualche avventore. Io guardavo le foto degli eroi del passato, contornati di sciarpe e gagliardetti, dopo la cassa. Molti ora sono defunti, o dimenticati. Vivevano in quelle foto in bianco e nero.

La domenica mattina discutevamo sempre perché la mamma voleva andassimo in chiesa, ma lui spesso preferiva restare a casa a guardare la tv con me, o passare il tempo con Atlantide.

Però, quando la mamma stette male, papà mi diceva ogni giorno di andare in chiesa, o alla cappella dell’ospedale, per inginocchiarmi e pregare. Lui mi accompagnava di rado, ma ogni tanto veniva, ma non s’inginocchiava mai. Però chiudeva gli occhi, e forse mormorava una preghiera. Poi la mamma si riprese. È ancora fra noi.

Quando il tempo era bello, e non c’era la partita, la domenica ci svegliavamo presto per andare a pesca. Credo che, nel suo tempo libero, fosse la cosa che preferiva fare in assoluto, più che guardare il calcio e, forse, a pari merito con Atlantide, se non di più. Partivamo molto presto al mattino… ricordo certe levatacce, e un freddo tale che ci voleva un bel coraggio per uscire dal letto. Mi scuoteva con le sue manone, ancora in bretelle e canottiera, accendeva un piccolo sigaro vicino alla finestra aperta della cucina, quella che dava sul cortile dove giocavamo a palla, e aspettava che mi vestissi.

Quando eravamo a pescare ci dimenticavamo completamente del giorno. Così ho imparato che soltanto quando è immerso nella natura l’uomo può dimenticarsi completamente di sé, ed essere interamente sé stesso. Spesso non tornavamo in tempo neppure per la messa della sera. Mamma si dispiaceva.

Un paio di volte all’anno, di Natale e a Pasqua, papà si confessava e prendeva la comunione. Mamma, a volte, diceva che era un “pagano.” Per motivi di fede potevano anche arrabbiarsi e non parlarsi per giorni.

Allora, la maggior parte dei miei amici aveva perso la testa per Augusta, una ragazza di una famiglia bene che, per qualche motivo strano (credo legato a una separazione) aveva iniziato a seguire la scuola con noi, a metà anno. C’era da perdere la testa per lei, sempre così ben vestita, con quelle acconciature da donna più grande e il volto perfetto. Non dava molta confidenza a nessuno e, anche per il suo modo di fare molto raffinato, tutti noi pensavamo che non fosse interessata a mischiarsi con noi. Poi, durante l’anno, emersero le seguenti cose: che era (in apparenza) timida, ma che in realtà aveva un carattere molto pepato. Che (in apparenza) era solitaria, ma poi si era cominciata a fare un giro di amichette che la seguivano e la imitavano in ogni cosa. Che (in apparenza) si dedicava soltanto allo studio, ma, in realtà, aveva come fidanzato un universitario. Lo scoprimmo perché lui, una volta, venne a prenderla in auto sportiva sotto la scuola, e si diedero un bel bacio davanti a tutti. Era allampanato, aveva bei capelli corvini e un paio d’occhiali da sole.

Io, pur non coltivando alcuna realistica speranza in merito, ci rimasi malissimo, perché Augusta mi piaceva molto. Ero anche piuttosto deluso da me stesso, perché mi sembrava di aver gusti molto banali. Piaceva a mezza scuola. Comunque, dopo che la vidi uscire col suo fidanzato ufficiale smisi di studiare e mi chiusi in stanza a progettare cose assurde, come di scrivere un poema per farla innamorare di me.

Alla lunga, i miei genitori s’accorsero di questo stato di cose. Papà venne a parlarmi.

«Che ti prende?»

Lì per lì, non volli confessare, Non avevo mai parlato con lui di sentimenti. Non era qualcosa che si facesse in casa nostra. Ma, alla fine, confessai.

«È molto bella, questa Augusta?» mi chiese.

«Molto.»

«Non bisogna mai innamorarsi delle persone belle. Si perde solo tempo» mi spiegò. Quindi, mi lasciò solo.

Lì per lì non capii bene cosa volesse dire. Di chi ci si deve innamorare, se non delle persone belle? I belli piacciono. Poi, più in là, stetti di nuovo molto male per una ragazza bella che mi piaceva e, allora, capii il consiglio di mio padre. Non ho più perso tempo, da allora.

 

Questo è quanto vi so dire di lui, per il ritratto che mi avete chiesto di scrivere per il numero, a lui dedicato, di “Annali di poesia.” Spero quanto ho scritto non risulti farraginoso e inconsistente. Ho saputo soltanto dopo la sua morte, quando ho conosciuto voi redattori al suo funerale, che papà da voi era molto ammirato. Che era un poeta con una bella lista di pubblicazioni, che corrispondeva con tanti altri poeti e che era rispettato nell’ambiente. Per noi, era solo un autista di bus che, in canottiera e bretelle, nel tempo libero, cercava Atlantide. Ho riletto tutti i numeri della vostra rivista, dove appaiono le sue poesie, e sono contento che vogliate anche dare alle stampe “Atlantide,” il poemetto a cui lavorò per tutta la vita. In effetti, se ci penso, non ci ha mai mentito. Cercava Atlantide.

Però non so dirvi, come mi avete chiesto, se le poesie di papà mi piacciano o meno. Lui mi piaceva, al di là del fatto che era mio padre. Era una persona gentile. Non so perché ci nascondesse i suoi successi, le sue attività collaterali che, in qualche modo, dovevano renderlo fiero. Forse non gli pareva che un’autista di bus potesse dichiararsi poeta. Magari temeva che gli amici, i colleghi, la mamma (che pure qualcosa doveva sapere) lo prendessero in giro. Io, a parte quel poco che ho studiato a scuola, di poesia non capisco nulla. Però, quando penso a papà, al suo modo di fare, di trattare con le persone e di vivere la vita, penso: “Quello era il mio papà,” e poi a volte, penso: “Papà era un poeta,” e mi sembra di capire cosa s’intende, quando si dice di una persona: “Costui è un poeta,” ma non in senso denigratorio. Come un complimento.

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Domenico Santoro
Domenico Santorohttps://domenicosantoro.art.blog/
Nato nel 1986 a Ostuni, dove risiede, laureato in scienze politiche e filosofia, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su la Repubblica (ed. Bari), A4, Grado Zero, Risme, Il paradiso degli orchi, Spore, L’ircocervo, Quaerere, Bomarscé, Voce del Verbo. Nel 2021 ha pubblicato un romanzo (“Il posto delle cose”) con Placebook Publishing. Il suo sito personale è domenicosantoro.art.blog.
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