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Ostuni
Agosto 12 2025

L’uomo di sabbia

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Mamma non era più con noi da qualche anno, perciò papà mandava avanti la famiglia da solo, con due lavori. Oltre a insegnare scienze al mattino, correggeva bozze per una casa editrice di testi scientifici e scolastici. Si rilassava un po’ solo nel fine settimana, chiuso nello studio. Era uno di quegli appassionati di musica, con tanto di giradischi e hi-fi di qualità. Gli piaceva soprattutto la classica. Dallo studio, quando la puntina andava, si poteva sentire un soave mormorio. Restava lì fino a tarda sera, fra la musica e i libri, e dormiva molto poco. Aveva gli occhi stanchi e segnati. Anche noi restavamo svegli, almeno finché lui restava in piedi, giocando, nella nostra stanza, o ipnotizzati dalla luce blu del televisore.

In casa, da quando la mamma non era più con noi, non si dormiva molto. Come se ci aspettassimo che, prima o poi, tornasse, trasportata dai sogni.

Zia Eudora si vedeva di rado, il che era un peccato, perché era uno spasso. Non si era mai sposata. In famiglia pensavamo che fosse innamorata, senza speranze, dal professore universitario di cui era l’eterna assistente, al dipartimento di studi storici di Torino. Quando arrivava, era sempre carica di racconti e ninnoli, che provenivano da ogni parte del mondo.

Poi ci fu quella volta che ci regalò l’uomo di sabbia.

Non era fatto esattamente di sabbia: era una grande bambola, alta grossomodo quanto mia sorella (un po’ più bassa di me), realizzata in canapa, vimini e garza. Al posto degli occhi aveva due bottoni di colore azzurro come il topazio, ma erano di sicuro pietre senza valore, e portava un naso a tubo di colore arancione, con un’inquietante bocca con un sorriso dello stesso colore. Sulla cima della testa, c’era un foro e, agitandola, potevi sentire che era vuota e leggera.

«Da dove viene l’uomo di sabbia?»

«Un mercatino in Danimarca… se le mie informazioni sono corrette, e di solito lo sono, qui andrebbe versata la sabbia…» continuò la zia, mentre presentava il nuovo giocattolo — ammesso che fosse tale.

«La sabbia?»

Papà, nel frattempo, con fare scettico preparava del caffè, del latte e dei biscotti per la sorella, stanca dal lungo viaggio. La zia si sarebbe fermata per un giorno e mezzo, prima di ripartire per l’Africa centrale. Cercava, insieme al suo capo, il fossile che avrebbe fatto da anello di congiunzione fra l’uomo e la scimmia. Con un uomo della cultura scientifica di nostro padre, sapevamo già tutto su quel genere di cose, per quanto dovessimo ancora studiarle ufficialmente.

«Qui si versa la sabbia» spiegò. «Va a sabbia.»

«Cosa vuoi dire»? chiedevamo noi, che non stavamo più nella pelle.

«Va a sabbia. Così mi dicono le mie ricerche. Quando l’ho preso, ho pensato subito a voi» rispose zia Eudora.

Che intendeva dire, con “va a sabbia”?» Cosa sarebbe successo, se lo avessimo caricato? Avrebbe cominciato a muoversi? A parlare? Sarebbe stato un amico, o una minaccia? Aveva un aspetto inquietante, con quel ghigno sul viso che non si poteva cambiare.

«Questo lo porto direttamente in garage…» disse papà. «Altrimenti i bambini non dormiranno la notte, al pensiero di questo mostriciattolo che si aggira per casa.»

Già non dormivamo di nostro. Però papà non se ne rendeva conto.

«Non siamo più bambini» protestò mia sorella, più bassa di me, ma più grande. Lei andava già alle scuole medie. Cominciava a voler essere trattata come un’adulta.

«No, certo…» disse zia Eudora, con sorriso rassegnato, forse dispiaciuta che il suo regalo non fosse stato gradito dal fratello. La zia era molto bella, ma cominciava ad avere rughe attorno alla bocca e sulla fronte. Papà la rimproverava perché non si decideva a sposarsi, nonostante avesse ancora una fila di corteggiatori. Lei invece gli rimproverava di essere rimasto solo. Nel complesso, erano molto uniti.

Zia Eudora il giorno dopo ci portò in città. Andammo al museo di scienze naturali, al cinema, a mangiare un gelato, mentre papà, che in teoria doveva approfittare della nostra assenza per riposarsi, stava di certo correggendo dei compiti o lavorando a un libro. Conoscendolo, beveva troppo caffè e faceva tutta quella serie di errori che gli scapoli o, nel suo caso, i vedovi, commettono quando rimangono soli troppo a lungo.

«Troverai l’anello mancante?» le chiedemmo, quando accompagnammo la zia all’aeroporto di Brindisi.

«Ne dubito. Ma faremo qualche passo in avanti. La scienza è un’impresa collettiva» ci spiegò, mentre papà guidava sulla strada provinciale.

Al ritorno, chiedemmo a nostro padre se potessimo fermarci a vedere l’oasi di Torre Guaceto. Non c’importava tanto di vedere gli animali, ma volevamo prelevare della sabbia per caricare lo strano pupazzo. Non vedevamo l’ora di vedere come funzionava.

«È da ieri che state in giro. Non siete stanchi?»

«Neppure un po’.»

«Torre Guaceto. Fatemi pensare. Prima o poi, dovevo portarvi. So che è necessario prenotare.»

«Abbiamo il numero» rispondemmo, molto organizzati nel nostro piccolo piano.

«Va bene…» rispose lui, rassegnato. Infilò l’auricolare nel cellulare e telefonò alla riserva. Fummo fortunati, si erano appena liberati due posti per uno dei tour guidati col naturalista. Eravamo in tre, ma ci risposero che andava bene.

Il giro durava circa tre ore. Vedemmo la fauna del luogo, restando affascinanti in particolare dalle grandi tartarughe e da una rara specie di anatre in migrazione. Però non ci scordammo del nostro compito principale. Senza farci notare, riempimmo le tasche delle giacche e gli zainetti di sabbia bianca.

Nostro padre era contento di stare lì con noi. Aveva uno sconfinato amore per la natura. Era più prudente di zia Eudora, altrimenti, forse, avrebbe tentato la difficile strada accademica. Forse, se la mamma non fosse mancata tanto presto, avrebbe provato, ma doveva occuparsi di noi.

Papà era un signore sempre elegante, coi suoi pantaloni in panno e i capelli biondo cenere. Sicuramente sono parziale, nei suoi riguardi, perché era mio padre, ma è me è sempre sembrato una bravissima persona. Un sognatore, a suo modo.

Tornammo perciò a casa, carichi di sabbia. Papà non aveva ancora attuato la sua minaccia, di portare l’uomo di sabbia in garage, perciò, per il momento, la sua presenza aleggiava ancora per casa.

Appena fummo soli, versammo la sabbia nel foro sulla sua testa, e aspettammo. Naturalmente, non successe niente. Ci sentimmo sciocchi. Quella sera ci mettemmo a letto, stanchissimi, con l’uomo di sabbia in un angolo della stanza buia. Non riuscimmo, come al solito, a giocare, o a guardare la televisione. Le nostre palpebre s’appesantirono di colpo e sprofondammo in un sonno molto profondo.

Ci svegliammo il mattino dopo, perfettamente riposati e perfino vogliosi di affrontare un lunedì. A scuola eravamo ancora a metà dell’anno, particolarmente faticoso per mia sorella. Ci alzammo da soli e ci vestimmo di tutto punto, quindi andammo in cucina per la colazione, ma, stranamente, non c’era nulla ad aspettarci in tavola. Poiché ci tenevamo a mostrarci autonomi, decidemmo di prepararla da soli. Latte bollito per noi, caffè per papà, fette di pane tostato (in famiglia ne eravamo appassionati, e poi era un modo per non gettare il pane raffermo) con burro e marmellata.

Dov’era nostro padre?

Non era nella sua stanza da letto e le lenzuola non erano sfatte. Andammo nello studio. Lo trovammo sul divano, con un libro aperto sul petto, che dormiva sereno come un angelo. Era bello vederlo così, finalmente in pace.

Voglio essere chiaro: l’uomo di sabbia non fece miracoli. Non arrivò per noi una nuova madre. Una forza misteriosa avrebbe sempre tenuto papà legato alla mamma. Però le informazioni della zia erano esatte. Era vero che l’uomo di sabba, una volta caricato, funzionava. Da quel giorno, in casa, ritrovammo almeno il sonno.

 

Vedi anche:

L’uomo di sabbia (Hans Christian Andersen), favola in inglese all’indirizzo https://www.hcandersen-homepage.dk/?page_id=1940

L’uomo della sabbia (E.T.A. Hoffman), riassunto all’indirizzo https://it.wikipedia.org/wiki/L%27uomo_della_sabbia

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Domenico Santoro
Domenico Santorohttps://domenicosantoro.art.blog/
Nato nel 1986 a Ostuni, dove risiede, laureato in scienze politiche e filosofia, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su la Repubblica (ed. Bari), A4, Grado Zero, Risme, Il paradiso degli orchi, Spore, L’ircocervo, Quaerere, Bomarscé, Voce del Verbo. Nel 2021 ha pubblicato un romanzo (“Il posto delle cose”) con Placebook Publishing. Il suo sito personale è domenicosantoro.art.blog.
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