Mamma non ha mai avuto altre ambizioni, oltre a quella di recitare, ma, alle feste che organizzavamo per Halloween, diventava regista, sceneggiatrice, scenografa, costumista, tecnico delle luci… se devo trovarle un difetto, direi che, in queste piccole recite, non lasciava alcuno spazio alla nostra creatività infantile. Decideva tutto lei e dovevamo attenerci. Le recite, d’altra parte, erano sempre un successo. Non erano solo per parenti stretti. Venivano anche i vicini di casa e amici da lontano.
La mia preferita si chiamava “La vendetta dell’Uomo lupo.” Ero vestito di un abito a strappo che a un certo punto dovevo liberare, trasformandomi in un essere di peluche e zanne di plastica. La trasformazione avveniva sul palco. Era divertente e, per certi versi, anche spaventosa. Poco dopo mi avventavo alla giugulare di mia sorella, da cui sprizzava dolce succo di melograno.
Papà era un tranquillo informatico. Ideava software in uno studio in cui era associato. Non aveva esattamente molto tempo libero, ma stava più con noi, perché spesso lavorava da casa. La mamma, che ebbe precoce, grande e ininterrotto successo nella sua carriera, passava molto tempo fuori, per le tournée e le prove.
Tutti pensano che la propria madre sia bella, ma è inutile dire quanto lo fosse realmente mia madre. Beh, inutile o meno, lo dirò comunque: anche verso la quarantina (grossomodo l’epoca di questi fatti) conservava una splendida figura (non l’ho mai vista mangiare molto oltre a carne lessa e verdure bollite), i suoi capelli erano di un biondo ramato tanto raro quanto utile a contribuire alla sua celebrità e gli occhi chiari e il naso erano finemente delineati. Ha fatto girare la testa a più di qualche ammiratore.
Anche quando recitava in città, non voleva che noi andassimo ai suoi spettacoli. Credo non desiderasse che la osservassimo con le mani colpevolmente macchiate di sangue, come la terribile Lady Macbeth; o, per esempio, maltrattata dal marito in spettacoli come Un tram chiamato desiderio. I piccoli, si sa, fanno fatica a separare la realtà dall’immaginazione; a volte, anche i grandi.
Non so se il teatro abbia una funzione educatrice, oltre a fornirci il prezioso bene di farci ben passare il tempo; mamma però non avrebbe potuto fare altro lavoro, perciò accoglievamo il sistema di luci colorate e ombre fumose che portava nella nostra vita come qualcosa da accettare, più o meno come non fiatavamo quando ci dirigeva nelle recite.
Papà, credo, non fu mai geloso di mamma; forse anche perché anche lui era piuttosto di successo nel suo lavoro. Quello stabiliva fra di loro qualcosa che devo definire come una situazione di deterrenza. Anche lui avrebbe potuto trovarsi un’altra, fare un’altra famiglia, se avesse voluto. Studiando la monadologia di Leibniz, alle scuole superiori, ho pensato che entrambi avessero un centro di forza molto potente, direi quasi magnetico, attorno al quale procedevano.
Una sera, avevo dodici anni e mia sorella dieci, girando canale trovammo la mamma ospite in qualche show serale con pretese intellettuali, di quelli che ogni tanto trasmette la tv pubblica. Credo il programma servisse a diffondere il lavoro teatrale suo e della compagnia a un pubblico che, probabilmente, sapeva ben poco di loro e del mondo del teatro in generale. Davano clip dei suoi spettacoli alternati con un’intervista.
“Cosa l’ha spinta a recitare?” chiese il conduttore. Mamma indossava un vestito rosso e, così seduta, mostrava un po’ di gambe. Una tattica attentamente studiata, immagino, per dare una scusa ai pigri pigiatori di telecomando per smuovere il sedere per andare a vedere uno spettacolo di qualità in prosa.
“I soldi” rispose lei, ridendo e facendo ridere il pubblico.
“Si guadagna così tanto, calcando i palcoscenici?” chiese affabilmente il conduttore.
“Ma no, scherzo. Guardi, non so bene perché faccio questo lavoro. Quando ero all’università entrai in una compagnia diretta da un signore molto bravo, si chiama Marco Monaldi. Cercatelo su Google. Non ha ancora avuto la fortuna che merita. Entrai per gioco, pensando che fosse un modo per svagare la mente dai pesanti testi d’esame.”
“Lei è laureata, giusto?” chiese
“Tecnicamente sarei una filologa, ma non pratico e non mi aggiorno, quindi non lo sono. Sono solo un’attrice, ahimè. Grazie a Marco però tirai fuori da me stessa qualcosa che non pensavo di avere. Riuscivo davvero a suscitare emozioni in me stessa e negli altri. Così, dal nulla. Un vero miracolo, se mi chiede. Poi, certo, c’è tanto da fare quando reciti. Imparare a memoria le battute, prove su prove, indossare scomodi costumi, poi si va in scena, e tutto quello che facciamo per poche ore sembra la cosa più importante del mondo, e per certi versi lo è, per noi che siamo in scena e, spero, per chi ci guarda. Poi riponiamo i costumi, ci togliamo il fondotinta — il mio, ahimè, è sempre più pesante — (risate del pubblico), le battute sfilano via dalla mente e non so dove vadano a finire, forse risuonano ancora come un’eco nella mente di chi ha gentilmente assistito alla nostra messa in scena. Lo scenografo ti invita alla pizza tutti insieme, siamo una compagnia democratica. Poi a tavola c’è il solito drammaturgo che un po’ di soppiatto ti rifila il suo malloppo di poesie. Non so perché sempre a me, poi, come se il mio parere conti qualcosa. Non sempre ceniamo insieme. Più spesso, quando siamo qui in città, come in questi giorni, e la tv di stato non richiede la mia presenza, torno dalla mia famiglia e sono una persona come tante, che si perde fra le faccende domestiche e il piacere di stare con i cari.”
Tutti applaudirono.
“Tutto qui?” chiese il conduttore, con garbata ironia.
“A volte ricevo dei fiori. Ma questo, per piacere, non ditelo a mio marito.”
Altre risate.
“È un piacere per noi averla qui. Dove la troviamo, in questi giorni?”
“Siamo al Verdi; ogni sera alle nove. Lo spettacolo si chiama “Un’altra verità;” per chi ama gli studi psicologici di ambientazione borghese.”
Papà (non ce ne eravamo accorti) stava dietro di noi, e ci guardava, oltremodo divertito.
«Papà, vogliamo andare a vedere lo spettacolo della mamma» dissi.
«Quando sarete più grandi. Fra un po’ è Halloween. Cosa volete fare?»
«Vorremmo andare a vedere la mamma.»
«Una bella storia di vampiri. Che ne dite?»
«Tanto poi decide tutto lei» disse mia sorella, imbronciandosi. La voce dell’innocenza.
Quella sera ci infilammo nel letto e restammo ad aspettare un poco per il bacio della buona notte di nostra madre. Avevo controllato sul telefonino: la sede della tv non era tanto lontana da casa. Con gli occhi di adesso, posso immaginare quella ragazza così adulta che pagava nervosamente il tassista, chiedendosi se quell’esibizione in tv fosse stata buona, tanto da attirare un po’ più di gente ad andare a vedere il loro spettacolo. Chiedendosi se quello “studio borghese” fosse poi così interessante e se, con la nuova stagione, non fosse il caso di mettere in scena qualcosa di più popolare.
Il lavoro — più che il lavoro, la felicità di molte persone, produttori, agenti, registi, altri attori, maestranze e molti altri — dipendevano dalla sua abilità nel far credere che l’irreale forse reale, per almeno due ore e che, per quel tempo, fosse la sola realtà che contasse al mondo
Marcel Proust, credo anche in età non così giovanile, non poteva dormire senza che la madre poggiasse le labbra sulla sua guancia. Io non sono altrettanto sensibile, ma avevo fiducia in lei. Sapevo che mia madre sarebbe passata lo stesso della stanza e ci avrebbe dato il bacio della buonanotte, anche trovandoci già nel mondo dei sogni, il suo reame.