Notò una fila di formiche emergere da un piccolo cratere di terra che si era creato in una fessura fra i mattoni rotti del pavimento del cortile della masseria, dove un tempo era l’aia — ora lo spazio era adibito al piccolo ristorante dell’agriturismo, quello che le dava non pochi grattacapi perché il cuoco si credeva un genio incompreso e proponeva agli avventori — fuori menu — piatti da lui inventati, perlopiù discutibili. Ma non era riuscita a trovarne un altro. Le formiche si avventurarono alla ricerca delle loro briciole. Valutò se chiedere in cucina di sterminarle, o se dovesse farlo lei.
Lei provvedeva a girare fra i tavoli per scambiare due parole con i clienti e portare qualche piatto. Qualcuno era rimasto dopo il convegno per un giorno o due, per godere delle bellezze pugliesi. Qualche studioso. I poeti, almeno quelli più scalcinati, erano già andati via, perché non potevano permettersi di prolungare il soggiorno — erano tornati alle loro piccole vite, di brevi gioie quotidiane, come il suggestivo rumore della pioggia in settembre. Lei avrebbe voluto di nuovo diventare bambina, quando girava per il cortile in rollerblade e suo padre, con fare indulgente, beveva limonata e continuava a scrivere le poesie di cui si era discusso a lungo, e in modo approfondito, al convegno appena concluso, fra non pochi sbadigli e i flash delle fotocamere di un paio di reporter di giornali locali.
Sorrise, una volta al tavolo, dove c’erano i professori del liceo cittadino e le rispettive mogli. Discutevano, anziché di poesia, dei loro figli che avevano saggiamente scelto un mutuo a tasso fisso e che si aspettavano una bella gratifica come premio di produzione a dicembre, molto più alta di quelli che, come i loro genitori erano stati, avevano uno stipendio statale.
Lei sorrideva e discuteva un poco con loro, a ognuno diceva di come al padre piacesse scrivere sotto il portichetto del cortile, con una caraffa di limonata e quelle belle, immortali sigarette bianche. Per cortesia ascoltavano la solita storia, più volte ripetuta, paragonabile all’unico singolo di successo di un cantante poi costretto a ripeterlo per anni alle apparizioni in televisione. Lei approvava i discorsi dei professori. Come succede in alcune case di poeti, da loro non c’erano mai stati molti denari. Il padre era stato troppo preso dalle sigarette e dal suo lavoro minuzioso, condotto sì con talento, ma, in fondo, utile solo alla sua gloria — di cui si era discusso a un convegno di fine estate a cui non aveva potuto partecipare, per via dei due pacchetti di Muratti al giorno.
Lei aveva costruito quell’agriturismo, non sapendo altrimenti come meglio darsi da fare, sfruttando a suo vantaggio il nome del padre, ma poi neanche tanto. Il posto non era tanto male, se non fosse stato per quel cretino del cuoco.
Desiderava, più che altro, girare di nuovo in cortile coi pattini, fantasticando di un mondo di desideri e sogni che però non avrebbe potuto portare a galla per condividerlo con alcuno, perché ormai suo padre aveva scritto tutto il mondo e in esso l’aveva circoscritta. Ma, in fondo, si era lasciato dietro solo macerie.
«Chi è quella bionda?» chiese uno degli avventori, affondando coltello e forchetta in una burratina.
«Di chi parli?»
«La signora alta, quella che porta i piatti con aria trasognata.»
«Quella?» disse l’altro, spostando lo sguardo dall’incantevole vista degli ulivi e il mare. Sospirò. Rifletté su quale portata avventarsi. «Quella» spiegò «è solo la figlia del poeta.»
Nel pomeriggio prese l’auto per andare sulla marina, dove aveva appuntamento con un uomo che conosceva da poco. Aveva una bella posizione, era dirigente in una fabbrica di elettro-conduttori, e non coltivava velleità artistiche come molti di quelli che si erano avvicinati negli anni alla figlia del poeta. Lei aveva indossato un ampio abito turchese che le sbatteva addosso per il vento. Aveva dipinto di turchese gli occhi. Si chiedeva se fosse sufficientemente carina per lui, ma non era innamorata. Come poteva innamorarsi di alcuno? Però la sua compagnia era piacevole.
«Bellissima» disse, dandole un bacio sull’angolo della bocca, col suo buon profumo di acqua di colonia di qualità. «Com’è andata oggi?»
Lei sospirò. Lo guardò. Imbronciò.
«Formiche. E il cuoco ha messo il pecorino sulla pasta alle cime di rape.»
Il suo compagno rabbrividì. Era un buongustaio.
«Potresti licenziarlo per giusta causa.»
Lei rise.
«Non saprei come sostituirlo.»
«Manca poco alla fine della stagione.»
«Sì.»
Passeggiarono per il porto. Ogni volta che provava a esprimere cosa sentiva quando guardava il mare, pensava ai classici versi del padre.
«A che pensi?»
«A mio padre.»
«Il convegno?»
«Noioso. Nessuno ha mai capito nulla di lui.»
«Dovresti scrivere un libro.»
«Non sono una scrittrice.»
Il suo compagno l’abbracciò e la baciò, proteggendola così dal vento. Continuavano a camminare stretti.
Si fermarono al bar per prendere del gelato, anche se lei non aveva davvero voglia, ed era chiaro che, alla loro età, era impossibile ritrovare quella gioia delle prime volte che conosciamo una nuova persona — ma bisogna vivere anche d’autunno.
S’affacciarono al porto. L’improvvisa vista del cadavere di un gabbiano che galleggiava fra le alghe provocò in lei lacrime disperatamente attese.
«Che ti prende?»
Lei tentò di ricomporsi, quindi si poggiò al suo petto. Strinse i lembi della giacca.
«È solo il cambio di stagione» spiegò. «Sai, come scriveva papà, foglie cadono in un mormorio esausto / spegnendo la nostra illusione estiva di vita…»