Buenos Aires, 1963. Joachim St. Thomas fu convocato nell’ufficio del responsabile del dipartimento di letterature comparate. Era quasi certo che si sarebbe preso un bel rimprovero perché, nella sua eterna indecisione, non aveva ancora presentato la proposta di ricerca per il suo dottorato.
«Lei è di madrelingua inglese, vero?» chiese invece il responsabile, dietro i pesanti occhiali neri.
«Mio padre è inglese.»
«Mi dicono che il suo livello di inglese è da madrelingua.»
«Sì.»
«Domani si presenti alla biblioteca nazionale di Buenos Aires. Ho un amico non vedente che ha bisogno della sua assistenza. Faccia il mio nome alla reception.»
«Assistenza?»
«Le sto proponendo un lavoro. Lei vive ancora coi suoi genitori, giusto?»
“Con la borsa di studio che mi passate…” sarebbe stato tentato di rispondere… ma Joachim si fermò.
«Un lavoretto per arrotondare non sarebbe male.»
«Bene. Vada.»
Prima di tornare a casa, si fermò alla biblioteca del dipartimento per prelevare un libro di poesie di Melville, autore noto soprattutto per aver scritto Moby Dick. In quel momento, era quasi certo che avrebbe scritto la tesi su di lui.
Camminò per il grande viale alberato che conduceva alla biblioteca nazionale. Si stava spogliando delle foglie gialle, che svolazzavano malinconicamente per le correnti d’aria. Era una vista particolarmente gradevole, anche se, lì per lì, non ci fece caso più di tanto.
La receptionist della biblioteca lo spedì di filato all’ultimo piano, ufficio in fondo. Joachim si chiese chi fosse quest’amico del capo del suo dipartimento, in bisogno d’assistenza. Arrivato all’ufficio, bussò, ma nessuno rispose. Si sedette fuori dall’ufficio col suo libro di poesie di Melville e cominciò a compulsarlo.
Un uomo alto, magro ed elegante uscì dall’ufficio. Joachim si chiese se fosse la persona con cui doveva lavorare, ma era evidentemente dotato di vista, perché chiese:
«Le poesie di Melville?»
«Per la mia tesi di dottorato.»
«Ne parli con Jorge, sarà contento di aiutarla. Non si spaventi, è la persona più civile che ci sia al mondo.»
Il ragazzo si chiese perché dovesse spaventarsi di questo Jorge…
Nel suo ufficio, un uomo era seduto in penombra dietro una grande scrivania di legno pregiato, carica di libri, carte e con un bel mappamondo scuro tempestato di puntine e foglietti. Sulle gambe teneva un grosso volume in folio, che sfogliava lentamente.
«Ormai lo faccio solo per abitudine» spiegò. «Sia gentile, prenda il libricino nero poggiato sulla sedia di fronte alla scrivania, si sieda e inizi a leggere dalla prima.»
«Va bene.»
Joachim prese il libro. Disse:
«Nella stanza non c’è luce.»
«No, certo. Apra pure la tenda.»
Joachim eseguì. Una bellissima veduta di Buenos Aires dall’ultimo piano del grande edificio. Si sedette e cominciò a leggere. Erano poesie di John Milton, un poeta cieco noto per aver scritto il poema Paradiso perduto.
Joachim andò avanti per circa un’ora e mezza. Quindi l’uomo gli chiese di fermarsi e di prendere il magnetofono che era da qualche parte per la stanza, e di porlo sulla scrivania. Cominciò a dettare degli appunti sulle poesie lette da Joachim. Quando finì, disse:
«Lei sta conseguendo il dottorato.»
«Sì.»
«Su cosa sta ricercando?»
«Le poesie di Melville. Credo.»
«Crede, o ne è certo?»
«Penso di sì.»
«Bene. Ora mi dica com’è il tempo fuori. Sia onesto. Bioy dice sempre che è terribile, ma non può essere terribile ogni giorno.»
«È una bellissima giornata d’autunno. È piacevole camminare nella brezza.»
«Lo sospettavo. Lei legge bene Milton. Viene anche domani?»
«Ne sarei onorato.»
«Onorato. Perché dice così?»
«Insomma, lei è…»
«Un umile poeta minore. Non si scomponga. Venga domani. Dirò alla mia segretaria di farle trovare del materiale su Melville.»
«Grazie.»
«Buona giornata» concluse seccamente l’uomo, e ricominciò a sfogliare il libro che aveva fra le gambe, quello che non poteva leggere perché, da qualche anno, Jorge Luis Borges era completamente cieco.
Isabella era piacevole da guardare. Un volto pieno, begli occhi lucenti, una fantastica corona di capelli neri tagliati corti. Ogni tanto pensava di farle delle avances, ma non voleva rovinare la sua amicizia. Era l’unica donna (fra quelle che conosceva) che avesse un profondo intendimento della letteratura.
«Com’è andata la giornata?»
«Sono stato alla biblioteca nazionale.»
«Nulla di nuovo.»
«Insomma. Sono stato ai piani alti.»
«Che intendi dire?»
«Intendo dire che sono stato dal direttore.»
La ragazza rise e cominciò a tempestarlo con pallottole di pane. Il cameriere servì loro baccalà fritto e polpette al sugo. Erano seduti al tavolo di un bistrot economico, per studenti.
«Vuoi dire che sei stato ricevuto dal direttore della biblioteca nazionale argentina?»
«Sì.»
«Vuoi dire, in altri termini, che sei stato ricevuto dal maggiore poeta argentino vivente?»
«Secondo alcuni. Se vuoi sapere la mia opinione, io lo trovo terribilmente sentimentale.»
«Vuoi dire che…aspetta, non stai scherzando. Si vede quando menti. Sei stato veramente da Borges?»
Joachim spiegò all’amica l’intera situazione. Lei era di gran lunga una maggiore ammiratrice dell’opera del grande poeta, rispetto all’amico. Il suo volto s’arrossò d’invidia. Chiese:
«Com’è?»
«Estremamente civile.»
«Ti odio. Stasera offri tu.»
«Be’, dal momento che ho un nuovo lavoro…»
Isabella ricominciò a colpirlo con una tempesta di molliche di pane.
Il giorno dopo, si presentò puntuale all’ufficio di Borges, alle dieci del mattino. Quel giorno Bioy Casares, suo stretto collaboratore e a sua volta scrittore di fama, non c’era. Le tende erano aperte. Borges aveva già con sé il magnetofono.
«Si sieda. Ricominci da dove c’eravamo interrotti ieri.»
«Certo.»
La scena si ripeté quasi uguale per tutta la sua settimana. Joachim leggeva le poesie, Borges prendeva appunti. Gli scambi fra di loro erano sempre molto formali. Al venerdì, dopo che Joachim aveva cominciato a leggere Milton, Borges lo fermò quasi subito:
«Sento una gran nuvola in testa. Credo che dovrò comporre una poesia. Le spiace lasciarmi della privacy?»
«Certo.»
«Aspetti fuori.»
Joachim uscì dalla stanza, confuso. Attese per circa due ore, quindi Borges s’affacciò alla porta per richiamarlo. Si sedettero di nuovo uno di fronte all’altro.
«La mia segretaria ha il materiale su Melville di cui le parlavo ieri. L’ho selezionato personalmente.»
«Lei è gentile. So che il suo tempo è prezioso.»
«Lei legge bene Milton, ma per ora ho concluso.»
«Capisco.»
«Buona giornata.»
Qualche mese dopo, erano in primavera, Joachim, mentre prendeva una viuzza laterale per evitare il capo del suo dipartimento (non aveva ancora avanzato la sua proposta di tesi) sentì qualcosa inseguirlo e percuoterlo sul capo con un libro.
«È uscito» disse Isabella, prendendolo sottobraccio.
«Non capisco.»
Gli mostrò L’altro, lo stesso. L’ultimo libro di poesie di Borges.
«Ti confesso che non è fra i miei preferiti. Troppo sentimentale…»
«Tu non hai gusto. Sediamoci a un bar, te ne leggo una.»
Una scusa per rinviare una visita al dipartimento. Perché no.
Ordinarono due caffè ai tavolini di ferro battuto. Isabella, felice, sfogliò il libro e lesse.
«Una rosa a Milton.
Delle generazioni delle rose
che nel fondo del tempo si sono perdute
voglio che una si salvi dall’oblio,
una senza marchio o segno tra le cose
che furono. Il destino mi concede
questo dono di nominare per la prima volta
quel fiore silenzioso, l’ultima
rosa che Milton avvicinò al suo viso,
senza vederla. Oh tu, vermiglia e gialla
o bianca rosa di un giardino cancellato,
lascia magicamente il tuo passato
immemorabile e in questi versi brilla,
oro, sangue o avorio e tenebrosa
come nelle sue mani, invisibile rosa.*»
Isabella si fermò, rossa in volto, estasiata.
«Che ne pensi?» chiese a Joachim.
«Milton era cieco. Come lui.»
«Sì.»
Si sentiva scosso. Pensò ai grandi viali alberati di Buenos Aires. Alla foglie che cadevano, volando nel vento. Al volto di Isabella. La cameriera arrivò coi caffè, ma lui ignorò il suo.
«Penso che descriva… l’ultima rosa che ha visto» concluse, semplicemente, mentre affiorava qualche lacrima. E sì che pensava di non essere un sentimentale.
* Traduzione di Livio Bacchi Wilcock, in Poesie di Jorge Luis Borges, BUR.