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Ottobre 17 2024

L’altra dottoressa (prima parte)

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«Da questo momento in poi» disse, aprendo una frizzante lattina di coca, «decisi che mai più nessuno mi avrebbe chiamato principessa

Il giornalista sorrise.

«Questo posso riportarlo nell’articolo?»

«Riporta ciò che credi» disse la dottoressa, agitando in aria le bacchette del sushi. «Io mi avvento. Le interviste mi rendono famelica.»

«Cos’altro le mette appetito?» chiese l’intervistatore, spandendo di salsa di soia il contenuto del piccolo contenitore nero. Stavano pranzando nello studio della ricercatrice, condiviso con colleghi assorti dai loro schermi.

«La ricerca» rispose lei, guardando da sopra gli occhialini rotondi di metallo.

Per quanto non si curasse troppo nell’aspetto, non si poteva dire che fosse una donna priva di fascino. Soprattutto per via della massa di riccioli color magenta, che teneva distrattamente legati e sembrava fossero per lei un fastidio, più che un vanto. In effetti, stava divorando il suo sushi con molto gusto.

«È un’ora che parlo degli inibitori dell’area neuronale del comportamento aggressivo. Ricerca non scevra da risvolti etici spinosi e sulla quale gli americani sono almeno due anni avanti, come su tutto. Non ho granché da offrirti per il tuo articolo, mi spiace dirlo. Com’è, invece, la vita del giornalista scientifico?»

«Tanto lavoro e poca gloria, ma spero di svolgere un servizio per i lettori. Saranno interessati alla tua ricerca. Perché dici che ha problemi etici?»

«Parliamo di cambiare farmacologicamente il comportamento delle persone.»

«Cosa c’è di diverso da quello che ormai facciamo per tutti?»

«Non credi nel libero arbitrio?»

«Credo nelle evidenze scientifiche.»

Lei si fece meditabonda, quindi agitò festosamente la lattina:

«Altra coca?»

«Sempre.»

«Anche tu membro dei caffeinomani anonimi?»

«C’è un altro modo di vivere?»

Risero.

Finito il pranzo, il giornalista salutò educatamente, augurò buon lavoro all’intervistata e lasciò il centro di ricerca. Notò come al parcheggio, al fianco della sua utilitaria, era spuntata una fiammante decappottabile rossa. Si chiese chi potesse guidare qualcosa del genere, in quel contesto. Si divertì al pensiero che potesse appartenere alla ricercatrice, ma aveva troppo l’aria del topo di laboratorio.

In redazione, la cronaca era in subbuglio perché c’era stato un altro caso: da alcuni mesi, la città era funestata da un pericoloso criminale che investiva i passanti e scappava. Da principio si pensava fossero casi isolati, ma la polizia sembra certa che ci fosse un’unica persona dietro quei misfatti. Il suo giornale lo aveva definito il barone rosso, perché sembrava fosse alla guida di una vettura dello stesso colore. Al giornalista quella definizione non era mai piaciuta, ma coniare quei nomignoli non rientrava nelle sue competenze. Pensò, divertito, all’auto che aveva visto poco prima.

«Ha fatto il morto, questa volta?»

«Ancora no» rispose il collega al desk della cronaca «ma la signora è in condizioni gravi.»

«Ci mancava solo questo pazzo.»

«Chi ti dice che sia un uomo?»

«Di solito i serial killer sono uomini.»

«Ma non ha ancora ucciso nessuno.»

«Speriamo lo prendano prima» concluse un po’ diplomaticamente il giornalista, quindi andò alla scrivania per lavorare al pezzo. Sarebbe uscito il giorno dopo, con l’inserto scientifico del sabato, tutto sommato poco seguito dal grande pubblico, ma con uno zoccolo duro di lettori affezionati. Nel tempo libero dal giornale, redigeva manuali scientifici per le superiori ed era in trattativa con un editore per un libro sulle neuroscienze. Anche il suo lavoro, in definitiva, era da topo di biblioteca.

Quando scese giù in strada per tornare a casa, non fece troppo caso a chi passava. Sembrava improbabile che “il barone rosso” colpisse due volte nello stesso giorno.

 

«Ti dico che è perfetta per te» continuò a insistere l’amica, di fronte all’ennesimo sushi (tutto quel pesce crudo col riso stava diventando estenuante. A quando una bella pizza?).

«Ne dubito fortemente.»

«Perché?»

«Intanto, da solo sto bene. Ho molto da lavorare. E poi, tutti credono di conoscere i gusti degli altri, però quasi sempre si sbagliano.»

«Sarà amore a primo sguardo. Comunque, non hai chance di scappare, perché le ho detto di passare per il sakè.»

«Quindi questa sarebbe un’imboscata?»

«Grossomodo.»

«Sei perfida. Potevi almeno darmi modo di andare dal barbiere» disse il giornalista, carezzandosi la nuca.

«Così stai bene. Chi fa il tuo lavoro dovrebbe sempre avere un’aria un po’ trasandata. Immaginario popolare.»

«Immaginario popolare. Certo.»

L’amica dell’amica arrivò. Lui dovete ammettere che era uno schianto. Non aveva mai visto una massa di capelli rossi tanto belli, e la pelle chiara e le efelidi le davano una notevole somiglianza con Nicole Kidman. Rimpianse sinceramente di non essere stato dal barbiere quel giorno.

«Giulia. Anzi, la dottoressa Giulia. Ti presento Claudio.»

«Ci conosciamo» disse lei, sorridendo, sedendosi, sfilando i guanti rossi di pelle.

«Non mi pare…» rispose, perplesso. «Però hai un’aria familiare.»

La dottoressa sorrise furbescamente, quindi prese dalla borsa gli occhialini rotondi, metallici, e li infilò.

«Ti ho intervistata due settimane fa» disse Claudio, stupito. «Sembravi un’altra persona.»

«Niente camice e niente occhiali» disse lei, versandosi il sakè che nel frattempo era stato portato dal cameriere giapponese. «Mi capita spesso.»

«Non sapevo fossi amica con Lara.»

«Ci siamo conosciute al corso di arrampicata.»

«Non ti facevo neanche così sportiva.»

«Nascondo molte sorprese» disse la dottoressa. Quindi, prese un elastico rosso dalla borsa e legò di nuovo i capelli. Con gli occhiali e i capelli legati, il giornalista pensò che era davvero lei. Non riusciva a capire come mai, per un attimo, i capelli gli fossero sembrati rossi. Erano scuri, con riflessi magenta, come la prima volta che l’aveva vista. Forse un gioco di luci nel locale lo aveva tratto in inganno.

«Bene, vi conoscete già, quindi metà del lavoro è fatto. Io domani ho una consulenza complessa» disse l’amica di Claudio. «Vi lascio a voi. Socializzate come persone normali e non parlate per tutto il tempo di lavoro, visto che siete entrambi fissati. Coraggio» concluse, stringendo le spalle a Claudio e andando a saldare il conto.

«Mi spiace, non avevo idea della trappola» disse Claudio, versando sakè a entrambi.

«Ti spiace molto stare qui con me?» rispose lei. Sembrava divertita e leggermente distratta, come se nel locale accadesse altro di più interessante di quella conversazione.

«No, a dire il vero» confessò Claudio e, mentre lo diceva, dovette confessare a se stesso che la ricercatrice scientifica aveva il suo fascino e che, alla fine, per quanto uno accampi scuse, non vuole mai restare solo. Decise di fare del suo meglio per fare una buona impressione sulla donna.

«Niente lavoro…» disse, grattandosi il capo. «Di cos’altro si può parlare?»

«Del caffè?» chiese lei, concentrandosi di nuovo su di lui e sorridendo.

«Giusto, ordiniamone un paio.»

«Ma no. Qui non è granché. Ti porto in un posto dove ne fanno uno strepitoso.»

«Mi fido.»

«Fai male, ma non hai altra scelta. Andiamo» disse lei, mentre lui s’interrogava sulla sua personalità. A volte sembrava timida e remissiva; un momento dopo, emergeva un tratto quasi luciferino. Tutto ciò lo affascinava. Sperò che la loro amica in comune avesse dimostrato buon senso, facendoli uscire.

«Sono venuto in metro» confessò, quando furono fuori dal locale.

«Ti scarrozzo io» fece Giulia, la dottoressa, infilandosi i guanti di pelle. Claudio quasi aspettava di trovare di nuovo l’auto rossa che aveva visto due settimane prima ma, come era prevedibile, la donna con cui stava uscendo guidava un modesto macinino color topo. Mentre erano in auto, e poi al caffè, sembrò di nuovo la compassata ricercatrice di due settimane prima. Parlarono al lungo del riscaldamento globale e poi cominciarono ad approfondire la conoscenza reciproca discutendo delle loro famiglie e dei loro interessi extra-lavorativi.

Al termine del caffè, lei gli diede il suo numero e gli disse che se lui l’avesse richiamata sarebbe stata contenta, ma non sarebbe nemmeno morta dietro il telefono, perché aveva parecchio in corso nella sua esistenza. Lui apprezzò la schiettezza.

Vedendola ripartire si rese conto che, quando era da sola alla guida, era alquanto spericolata. Che strana donna.

Nel pieno della notte, il “barone rosso” colpì di nuovo.

 

Potete leggere la seconda e utima parte del racconto cliccando su questo link.

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Domenico Santoro
Domenico Santorohttps://domenicosantoro.art.blog/
Nato nel 1986 a Ostuni, dove risiede, laureato in scienze politiche e filosofia, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su la Repubblica (ed. Bari), A4, Grado Zero, Risme, Il paradiso degli orchi, Spore, L’ircocervo, Quaerere, Bomarscé, Voce del Verbo. Nel 2021 ha pubblicato un romanzo (“Il posto delle cose”) con Placebook Publishing. Il suo sito personale è domenicosantoro.art.blog.
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