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Ostuni
Ottobre 19 2024

Sotto il temporale

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Erica era alla scuola di danza. La madre era stata indecisa se portarla o meno, per via del temporale in arrivo. La dodicenne, però, aveva insistito molto. Non aveva mai legato coi compagni della nuova scuola, mentre a danza aveva fatto amicizia. La madre non se l’era sentita di negarle un pomeriggio di felicità.

Di solito, Erica tornava a casa da sola. In linea di massima, era molto indipendente. Quel giorno, la madre disse d’aspettarla sotto un balcone, con la mantellina trasparente, finché lei fosse arrivata con l’auto.

Guardò le nuvole fuori dalla bella porta-finestra, che dava sull’elegante giardino col prato all’inglese, poi il computer con cui era in smart working, sul tavolo. Un contratto come consulente del comune, a termine. Tutti le dicevano che con le sue competenze, il master, l’esperienza pregressa, appena si fosse concluso il lavoro ne avrebbe trovato un altro. Lei però aveva paura: da quando aveva avuto Erica, da quando cioè aveva deciso di tenerla, nonostante il padre si fosse volatilizzato, era sempre intimorita dal domani, dalla sua vita da eterna donna single con contratti che scadevano dopo uno o due anni. Una vita peraltro nomade, che non andava bene per la figlia.

La sigaretta, e la vista dei primi fulmini, scacciarono i pensieri negativi. Il lavoro la divertiva. Inoltre, i colleghi del comune erano volenterosi, in gamba. Non combaciavano affatto con lo stereotipo degli impiegati pubblici. Ma, da quando lavorava, si era resa conto che gli stereotipi raramente indovinano.

Dopo che fu assorbita di nuovo dal solito schermo, sentì qualcuno suonare al campanello. Un seccatore, forse? Con quel tempo? O la vicina di casa, con una delle sue torte di carote?

Guardò nello spioncino. Un uomo solo. Un commesso viaggiatore?

Aprì, senza togliere la catenella. Il suo cuore si fermò. No, non poteva essere vero.

Come al solito, era vestito di jeans e camicia di flanella. I capelli sempre lunghi, la barbetta incolta. Restò in silenzio. Non era invecchiato di un giorno.

«Cosa vuoi da me?»

L’uomo non rispose.

La donna si sentì stringere il petto. Chiuse la porta tornò a lavorare… ma era impossibile. Sentì di nuovo suonare. Ci pensò su, poi si rassegnò ad aprirgli. Era pur sempre il padre di Erica. Un altro tuono. Scoppiò a piovere.

«Vieni» disse, aprendo. «Ti faccio il caffè.»

L’uomo non rispose. La seguì in casa. Sedette sul divano del soggiorno, con quella grande porta-finestra da cui si vedeva il temporale.

La madre di Erica preparò i caffè con le cialde. La torta di carote era terminata. Poggiò due biscotti secchi sul lato del piattino.

Lui restò sul divano, senza dire nulla. Prese il caffè in mano, ma non lo bevve.

«Perché non parli? Sei diventato muto, nel frattempo?»

Guardava fisso davanti a lui. Non rispose.

«Sei snervante, come al solito. Sei qui per tua figlia? Non sono certa sia una buona idea.»

Nessuna risposta.

La donna si sedette alla scrivania. Poggiò il caffè sul tavolo. Ci fu un tuono improvviso. Con un gesto inconsulto, rovesciò il caffè, che andò a versarsi sul computer.

«Oh no» disse. «Questa non ci voleva.»

S’alzò di scatto per andare in cucina a prendere la pezza e, rapidamente, sollevò il computer e tamponò il liquido.

«Questa non ci voleva…» disse. «Non posso lasciarlo una settimana dal tecnico. Non saprei come fare.»

Quando fu certa che il computer non aveva ricevuto danni dal liquido caldo, guardò l’ex fidanzato.

«Io lavoro sai, ho sempre lavorato. Questa bella casa me la pago da sola. Anche i vestiti di Erica, i suoi libri di scuola, la scuola di danza… sì, adesso lei va a danza. Sta venendo su una bella signorina. Tutto da sola ho fatto. Tu, invece, cosa hai combinato, in tutti questi anni?»

L’uomo girò ieraticamente la testa verso il temporale. Poi, guardò la donna.

«Capisco. Hai deciso di giocartela così. Vuoi farmi snervare? O vuoi mettermi pena? Scommetto che hai bisogno di soldi. Certo, è questo il motivo per cui sei qui, dopo tutti questi anni. Di tua figlia non te ne frega niente. Non te ne è mai fregato niente. Aspetta, tengo dei contanti nell’armadio in stanza. Vado a prenderli.»

L’uomo non disse niente. Volse di nuovo la sguardo verso il temporale. La donna andò a prendere i soldi. Quando tornò, vide che lui stava guardando i messaggi sul suo cellulare.

«Che fai, controlli se ho amanti? No, nessuno, non ti preoccupare. Sei stato l’ultimo uomo della mia vita. Non ho avuto il tempo per altre relazioni.»

L’uomo guardò il cellulare e poi lei. La donna glielo strappò di mano. Si rese conto che non c’era più rete. Fu presa da un sentimento d’angoscia. Di solito Erica l’avvisava con un messaggio, quando finiva con gli esercizi.

«Sarà meglio che vada ad aspettare mia figlia sotto la palestra. Tu vieni? Spero almeno che vorrai rivederla.»

L’uomo la seguì fuori dalla porta. Lasciò i contanti sulla scrivania.

Ora pioveva forte. La donna, visti i tuoni, evitò di prendere l’ombrello. Arrivarono all’auto già fradici.

«Ti ricordi che mi prendevi in giro perché guidavo male?» disse. «Be’, ho imparato nel frattempo.»

Mise in moto.

«Quando sei sola» continuò «impari molte cose. Forse mi hai fatto un piacere, andandotene. Sì, sono una persona migliore. E tu mi guardi e non parli. Mi chiedo a che gioco stai giocando. Certo, te lo stai giocando bene. Sei sempre stato più furbo di me.»

Arrivarono sotto la palestra, ma era già chiusa. Sotto, ad attendere, non c’era nessuno.

«Dov’è Erica?» si chiese la madre. Prese il cellulare, ma la perturbazione lo aveva messo fuori gioco. Si voltò verso il suo ex. Lui guardava enigmaticamente fuori dal parabrezza.

«Utile, come al solito» disse la donna, sarcasticamente. «Erica deve aver deciso di tornare da sola a casa, quando ha visto che non rispondevo al cellulare. Doveva aspettare. Si beccherà una bella ramanzina.»

La donna prese la strada che di solito la figlia faceva a piedi, preoccupata dal pensiero che camminasse da sola sotto la pioggia e i tuoni, protetta solo da un leggero manto di plastica. Intanto, il suo ex cominciò a fare grandi segni di diniego con la testa.

«Che fai?» chiese lei, guardandolo. «Ma non sarai per davvero diventato muto? Scusa, sono stata indelicata. Perché fai segno di no con la testa?»

Lui continuò a scuotere il capo. Si girò e la guardò, con occhi spettrali. La donna accostò l’auto.

«Non vorrai dire… no, Erica non può essere stata così stupida. Non può aver preso il ponte. Le ho detto mille volte di non farlo, anche se le piace passare di lì.»

La donna non sapeva che fare. Guardò l’ex, che aveva smesso di fare segno col capo. Dodici anni da sola. Sempre indipendente, tante scelte, alcune sbagliate, alcune giuste. Quella era importante. E se la figlia avesse preso il cavalcavia, magari convinta che avrebbe fatto in tempo a tornare a casa prima che scoppiasse il temporale? Lì c’era seriamente il rischio di esser colpiti da un fulmine.

Sospirò. Decise di fidarsi dell’ex. Se Erica aveva preso la strada solita, non correva grandi rischi. Sarebbe tornata inzuppata, e magari, dopo un paio di giorni a letto, si sarebbe presa una ramanzina.

Dopo pochi minuti, furono sul cavalcavia; ma, anche lì, non c’era segno della figlia.

«Ho sbagliato…» disse la donna, fermandosi al ciglio della strada. Strinse i pugni attorno al volante, poi si girò verso il padre di Erica. Nel frattempo, lui era svanito. Come aveva fatto a scendere dall’auto senza che lei s’accorgesse?

Un fulmine illuminò d’improvviso il suo terreo volto. Era al lato di una piccola cappella dedicata alla Madonna, posta più in là, ai margini della strada, dopo il cavalcavia. La donna scese dall’auto, incurante della pioggia, e andò da lui.

Erica era nella cappella, completamente impregnata di pioggia e tremante. La donna cercò d’asciugarle i capelli con le mani.

«Dov’è tuo padre?»

«Cosa?»

«Tuo padre. Era qui fino a un momento fa.»

«Mamma, che dici?»

La madre e la ragazza risalirono fino all’auto. La donna guidò silenziosamente fino a casa. Una volta lì, mise la figlia sotto la doccia. Nonostante dovesse essere incavolata nera, non lo era.

Mentre la figlia era sotto l’acqua calda, fece un paio di telefonate. Così scoprì la verità.

Erica emerse dal bagno in accappatoio bianco, con lo sguardo basso, pronta a subire le rimostranze materne. Lei invece la fece sedere sul divano, l’abbracciò, le baciò il capo.

«Devo dirti una cosa» disse. «Non è tanto bella» continuò, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. «Tre giorni fa è successo qualcosa a tuo padre. Ho saputo solo ora…» disse, continuando a parlare e ad abbracciare la figlia.

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Domenico Santoro
Domenico Santorohttps://domenicosantoro.art.blog/
Nato nel 1986 a Ostuni, dove risiede, laureato in scienze politiche e filosofia, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su la Repubblica (ed. Bari), A4, Grado Zero, Risme, Il paradiso degli orchi, Spore, L’ircocervo, Quaerere, Bomarscé, Voce del Verbo. Nel 2021 ha pubblicato un romanzo (“Il posto delle cose”) con Placebook Publishing. Il suo sito personale è domenicosantoro.art.blog.
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