La dottoressa Teresa Rizzi era di cattivo umore. William Shakespeare, nel famoso elenco delle offese dell’avversa fortuna che colpiscono l’ignavo Amleto, inserisce, sia pure in posizione periferica, “gli indugi della legge”. La sua testa, quando era sveglia da poco, formulava un risentimento per simili motivi.
Per dirla con parole semplici: da quell’ufficio, nessuna novità. Inutile farsi false aspettative, soprattutto sotto le feste. Aprì il frigo per prendere le uova e il bacon per il marito, quel nordico irrecuperabile (si erano conosciuti in Erasmus a Bruxelles), mentre per se stessa preparava qualcosa di più mediterraneo.
Quando l’avevano assegnata all’ospedale di Ostuni, avevano valutato i pro e i contro. Lui era un giornalista freelance, una di quelle persone che si portano l’ufficio nello zainetto del computer, perciò non gli importava davvero dove andassero. Ostuni non era lontana da Barletta, dove stava ancora un bel pezzo di famiglia. La città era poco inquinata, perché posta su rilievi e costantemente ventilata, e il vento le piaceva. Il mare, la vista degli ulivi, il buon cibo… oddio, la cucina pugliese non la faceva impazzire. Rimpiangeva ancora quando, come studentessa di medicina a Pavia, mangiava nelle grandi e accoglienti osterie, non dissimili da quelle cantate dal suo prediletto Francesco Guccini.
Però, era pur sempre una città del Sud, con molti servizi che, a suo modo di vedere, lasciavano a desiderare. Inoltre, aveva l’impressione che gli abitanti fossero freddi, con chi veniva da fuori, anche se era originario di quelle parti.
«Hungry…» mormorò il marito, rotolandosi nel letto. Lui solitamente s’alzava verso le dieci, cominciava a pigiare pigramente tasti sul Macbook e, quasi per miracolo, entro le cinque del pomeriggio aveva svolto il suo lavoro. Era una sorta di genio, beato lui, molto dotato soprattutto per le lingue. Teresa aveva imparato da lui che è veramente geniale chi riesce a lavorare il meno possibile, per poi godersi ciò che di bello la vita offre. Lui faceva lunghe passeggiate in campagna, o andava socializzare in un pub, migliorando rapidamente le sue conoscenze dell’italiano e anche del dialetto locale. Per lui, l’Erasmus non era mai terminato. Inoltre, smentiva ogni giorno l’idea di Teresa che gli ostunesi fossero antipatici.
Intanto, era temporaneamente assegnata al pronto soccorso, e, mentre beveva il succo d’arancia al tavolo della colazione, prima di andare al lavoro, s’interrogava oziosamente su quale lingua avrebbero parlato in casa, quando fosse giunto il momento. Si rimproverò per quel pensiero. L’ufficio non dava novità da mesi e, quando decideva di sollecitare, rispondeva sempre in modo freddo e scostante. Inutile fantasticare.
Fra i vantaggi di quella sistemazione, c’era che poteva andare a piedi in ospedale, dall’appartamento di viale Pola. Quando le avevano assegnato il turno di Santo Stefano, dentro di sé aveva provato una fitta di dispiacere. Non aveva avuto modo di saltare la festa di Natale dalle zie di Barletta. Naturalmente, Oscar (il marito) si era subito ambientato, aveva messo le zie a loro agio e aveva cominciato a imparare espressioni tipiche. Lei era stata un po’ in disparte, sentendosi molto in imbarazzo quando un’onesta nonnina le aveva chiesto se pensassero di avere figli. Non le andava di spiegare che quello per loro era un problema. Le sembrava molto personale. Si era tenuta sul vago, passando senz’altro per carrierista e anche lontana dagli insegnamenti della Chiesa. Aveva ricevuto un piccolo rosaio fosforescente che, in quel giorno di Santo Stefano, si era ritrovata nella tasca del camice, mentre lei sedeva nel piccolo ufficio.
Notò che qualcuno aveva lasciato un pezzo di Lego sulla tastiera, ma non restò a chiedersi troppo come fosse finto lì. Aveva il suo bel da fare.
Cominciarono ad arrivare le persone da assistere. Un ragazzino che si era slogato una caviglia, un signore che aveva esagerato con gli avanzi di Natale ed era andato in crisi iperglicemia, una ragazza un po’ sola che si era escoriata i polsi ed era andata in pronto soccorso solo per avere qualcuno con cui parlare. La mandò da uno psicologo in servizio.
Una giornata standard. Ogni giorno pregava che non ci fossero casi gravi, e, quel giorno, Santo Stefano era stato clemente, per chi ci crede.
Continuava il mistero dei pezzi di Lego. Uno in sala d’aspetto, un altro nell’ufficio degli infermieri, uno ancora lungo le scale che portavano a cardiologia, dove doveva consultarsi con un collega per il signore con la glicemia alta.
«Che giornata» disse a se stessa, concedendosi un’aranciata alla macchinetta.
«Com’è andato il pranzo di Natale?» chiese un infermiere, uno di quelli che lei pensava fossero antipatici con lei. Non era riuscita a legare nemmeno in ospedale. Si chiese se Oscar avesse ragione. Se fosse colpa sua.
«Non male. In famiglia. Lei?» chiese chiedendosi perché desse sempre del “lei” a tutti. Probabilmente, sì, era colpa sua. Sussiego.
«In famiglia, come tutti.»
«Non tutti. È venuta una ragazza che si era pasticciata i polsi. Niente di serio, ma non sono segnali da sottovalutare.»
«Capita ogni anno.»
«Non dovrebbe capitare…» disse la dottoressa. «Nessuno dovrebbe restare solo a Natale.»
Insomma (pensò) nessuno dovrebbe restare solo in generale.
«Che avete fatto?» chiese l’infermiere. «Non ero ancora di turno.»
«L’ho mandata dallo psicologo.»
«È bravo. Se ne prenderà cura.»
«Ne sono convinta» disse Teresa, per poi dirsi che, in verità, non era convinta per nulla. Capì che aveva un grosso pregiudizio contro la qualità dei professionisti del Sud. Era quello, si disse, il nocciolo del problema. Il Sud non le piaceva. Certo, se qualcuno avesse risposto da quell’ufficio, la sua opinione sarebbe mutata un poco. Ma non sarebbe successo nei giorni di Natale… non erano in un filmetto di Hollywood.
«Intanto dovrebbe andare a fare visita al suo ammiratore» disse l’infermiere, sornione.
«Cosa?»
«Il bambino operato di appendicite. Chiede sempre se passerà la “dottoressa bella”.»
Teresa sorrise.
«Pensi che sia lui a lasciare in giro questi?» chiese, mostrando i pezzi di Lego.
«Probabile.»
«Non dovrebbe andarsene a spasso.»
«Sta bene. Sarà dimesso oggi.»
Teresa andò al piano di sopra per salutare il suo ammiratore.
«Questi sono tuoi?»
«Grazie» rispose il bambino, sorridendo. La madre era voltata verso la finestra aperta. Fumava. Si capiva, da come era vestita, che proveniva da un contesto popolare. Teresa si sentì in dovere di dirle che non si fuma in ospedale, è severamente vietato, soprattutto nelle stanze dei pazienti. Ma, in quella stanza, erano da soli, la madre col figlio.
«Cosa fanno se li metti insieme?» chiese Teresa, sedendosi sul ciglio del letto.
Il bambino ci giocò un po’. Costruì.
«Me» disse, regalandole un giocattolo di Lego a forma di bambino.
Teresa deglutì un bel groppone.
«Ora andate a casa. Sei contento?»
«Mi piace qui.»
Teresa rise.
«Sì, ma speriamo di non rivederci troppo presto. Buone feste.»
«Tanti auguri» rispose il bambino, continuando a giocare con altri mattoni, che forse gli erano stati regalati così che avesse compagnia durante i giorni in ospedale.
«Buonasera signora.»
«Buonasera» rispose lei, finendo di fumare, senza girarsi dalla finestra.
Quando fu fuori dalla porta, scrisse al marito:
“Perché non ci danno ancora notizie?”
“Devi portare pazienza. Non è un pacco di Amazon.”
Oscar, come al solito, aveva ragione. Andò giù in ufficio, gettò il rosario nel cestino della plastica e scrisse un’altra mail all’ufficio delle adozioni internazionali. Così, l’indomani, non l’avrebbero letta per ultima.